Il mondo impossibile di Ambra

Ambra e Flavio
Il mio mondo è popolato di sogni. Sogni impossibili, personaggi impossibili, scelte impossibili. La vita a volte riserva molte sorprese e spesso sono amare. L’unico mio rifugio sono i sogni, dove ogni notte vivo la mia vita impossibile. Attendo ogni sera che il sonno mi prenda, che mi avvolga con il suo caldo abbraccio e mi trascini in luoghi improbabili.
La mia camera ha finestre che danno sul cortile, dalle persiane filtra la luce dei lampioni che crea linee di luci ed ombre. Le conto prima che gli occhi si chiudano, conto quelle nere e quelle dorate, la luce che filtra è calda e ricca di sfumature giallastre, credo che mi indichino una via, su ognuna posso leggere un sogno: un amore vero, un viaggio ambito, un lavoro interessante, una famiglia felice. Sono sogni impossibili? All’apparenza normali. Per me che non ho nulla e nessuno e vivo in un polmone di acciaio sono impossibili. Ma ogni notte la mia vita si popola e il sogno continua a tenermi in vita.
“Ambra, ho bisogno di te. Vorresti aiutarmi in cucina per cortesia? Questa sera abbiamo ospiti e non voglio fare brutta figura.” Mia mamma aveva invitato i nuovi vicini. Cinque persone che avrebbero invaso la nostra casa e condiviso con noi il pasto serale. Marito, moglie e tre figli. Il primogenito aveva pressappoco la mia stessa età, in seguito seppi che anche lui era iscritto alla facoltà di Lettere e storia antica come me.
Si presentarono puntuali alle otto, la signora Lucia aveva portato con se un dolce e il più piccolo dei figli aveva in mano un mazzo di margherite gialle che consegnò direttamente nelle mani di mia mamma. Si sciolse subito per quel gesto, avrebbero potuto assumerla nei funerali dove non c’era nessuno a piangere un morto; lei piangeva e si commuoveva per un nonnulla.
Il più grande, Flavio, sembrava timido e riservato, invece alla fine della serata riuscì a lanciarmi un sorriso… ma ci arrivo.
La cena fu lieta, i cibi appetitosi e caldi, le chiacchiere serene. Stranamente mio padre non parlò di politica, lo avevo avvertito: “Se tiri fuori i partiti e tutti i cretini che ne fanno parte, giuro, me ne vado, papà.” Come sempre lui mi aveva lanciato un sorriso sornione, di quelli che vorresti avvicinarti e iniziare a fargli il solletico e le lotte con i cuscini come da piccola. Mi trattenni. Amavo mio padre e adoravo mia madre, ero rispettosa dei loro ruoli e non davo adito a preoccupazioni. I figli dei vicini non sembravano da meno, educati e compiti sedevano a tavola e parlavano solo con la bocca vuota, solo Flavio era piuttosto silenzioso e sembrava essere assorto in chissà quali pensieri.
Mi sorpresi a scrutarlo. Aveva i lineamenti squadrati, capelli corti e scuri e due occhi in cui mi sarei persa facilmente, di un azzurro cielo improbabile, di quelli che vedi poco in una città come Milano. Probabilmente sentì il peso del mio sguardo e alzò gli occhi dal piatto per guardarmi a sua volta. Mi sembrò un Dio, così bello da togliere il fiato; mai nessuno aveva catturato la mia attenzione come Flavio. Distolsi il mio sguardo e il mio pensiero e continuai a mangiare, arrossendo.
Mia mamma servì il dolce sul patio. I due più piccoli giocavano a rincorrersi, mentre io e Flavio sedemmo vicini su un divanetto con morbidi cuscini. Stranamente mi mancavano le parole e la sua vicinanza mi faceva fremere. E lui credo fosse consapevole della sua bellezza. Ne ebbi la certezza quando, con fare del tutto naturale, mi sussurrò all’orecchio piegandosi verso di me: “Sei una bella ragazza anche tu e se non togli quel baffo di panna dalle labbra, te lo porto via io con la lingua.” Sorrise porgendomi un tovagliolo, una fila di denti bianchissimi. Il calore divampò sul viso e dandomi della stupida sbrodolona afferrai il tovagliolo.
“Ambra, è arrivato l’infermiere, mi dispiace tesoro, dormivi così bene.” La voce di mia mamma mi fece aprire gli occhi, lentamente, e la luce del mattino colpì il mio sogno peggio di un tir in piena corsa.


L’esame
Mi hanno fatto arrabbiare oggi. Da quando hanno cambiato l’infermiere è sempre così, mai un sorriso o una parola gentile da questo burbero e rincitrullito essere dal camice bianco. L’ultima sua battuta prima di andarsene del tutto fuori luogo e indisponente: “Non hai un bel colorito oggi. Dovresti far qualcosa.“ Inutile dire che mi è scappato un colorito vaffa, perché si, sono impedita nei movimenti, ma la parola non me l’hanno ancora tolta. Meglio dormire, chiudere gli occhi e rifugiarmi nella mia impossibile vita.
La mia pigrizia era epica, non mi piaceva fare le scale, soprattutto quando ero in ritardo bestiale. Uscii di casa in un lampo e la porta dell’ascensore era li, di fronte ai miei occhi. Cosa c’era di meglio che essere trasportati in strada in un minuto, piuttosto che scendere otto rampe di scale con il rischio di cadere? Mi piaceva uscire al meglio delle mie condizioni, perfettamente truccata e abbigliata. Quella mattina mi persi nella scelta dell’abito da indossare e delle scarpe da abbinare; mia mamma diceva sempre che ero vanesia e non potevo darle torto.
Pigiai il tasto per chiamare l’ascensore, attesi qualche minuto, fremendo e scalpitando, poi uno sguardo all’orologio e mi decisi a scendere per le scale: era tardi, dovevo arrivare all’università in tempo per registrarmi e volevo assistere a qualche altro mio collega. Non ero così pronta come volevo; notte praticamente insonne per via della figuraccia con il dolce e per il sorriso di Flavio che non se ne voleva andare. Inutile tentare di pensare all’esame di Filologia Latina, l’unica cosa che avevo in mente era il ragazzo della porta accanto. Mi diedi per la centesima volta dell’idiota, più del numero delle scale che scendevo traballante sui tacchi. Adoravo i tacchi ma non sempre erano comodi; stupidamente mi venne in mente l’ennesimo proverbio di mia mamma: chi bella vuol comparire, qualche pena deve soffrire.
Fuori dal portone di casa, il solito grigiore di Milano, la solita puzza delle auto che si rincorrevano frenetiche, le solite cacche di cane da schivare. Tutto come sempre, poche cose cambiavano. Quel mattino non trovai la mia auto al solito posto; ecco, questo si che era un bel cambiamento! Imprecai contro l’ignoto ladro e chiamai mio padre al cellulare. Imprecò anche lui e dopo alcuni minuti di impossibili soluzioni lo implorai di venirmi a prendere per portarmi all’uni. Girandomi per tornare verso il portone di casa e attendere, vidi Flavio. Mi resi conto che aveva ascoltato la mia telefonata quando: “Posso darti un passaggio, ma devi saltare sulla moto con me. Non posso offrirti altro.”
Era una mano tesa, improvvisa quanto gradita; unico neo la mia gonna aderente, ma non potevo assolutamente mancare l’esame. Seppur arrabbiata per il fatto increscioso e improvviso, accettai; infilai il casco e tirando la gonna verso l’alto saltai in sella dietro di lui. Indossavo le mie solite autoreggenti con il pizzo, i collant erano accessori banditi dai miei cassetti, consideravo la femminilità una prerogativa della donna e la sfruttavo per sentirmi meglio. Flavio si girò verso di me e lanciò uno sguardo compiaciuto alle mie gambe semiscoperte, arrossii sotto il casco ma con una lieve pacca sulla sua spalla e poi un gesto con la mano, senza parlare, gli feci capire che ero pronta per partire. Lui infilò il casco, accese la moto e partì. Sfrecciò nel traffico tra un auto e l’altra. Quando si fermò davanti alla facoltà ero ancora stretta al suo busto. Tornai in me quando mi sfiorò una gamba e: “Siamo arrivati, puoi lasciarmi. Devo accompagnarti o ce la fai da sola?” Una grassa risata accompagnò la sua frase.
Scesi inviperita dalla moto, mi aggiustai la gonna e quasi gli tirai addosso il casco. “Sono capace e libera di guidare le mie gambe fino all’aula giusta! Grazie per il passaggio.”
L’esame fu uno dei miei più grandi exploit, un trenta con lode e un applauso dei colleghi.
E’ già domani. L’alba è arrivata troppo presto. Solo mia mamma seduta accanto.




Piove
Oggi non mi sento bene, che poi… bene, per me, è una parola grossa. La testa penzola da un lato, verso la finestra. Attendo il buio e la luce dei lampioni che si infiltra tra le imposte delle persiane. Conto le linee e i miei pensieri, gli occhi si chiudono.
“Ambra, sei stata fantastica. Dove hai trovato quella grinta, sembravi un treno in corsa. Non la finivi più! Il professore sembrava stesse ascoltando una Dea.” Serena, una delle sue amiche, le stampò un bacio su una guancia, le altre la abbracciarono.
Uscimmo insieme dall’aula, quattro ragazze che discorrevano allegre lungo i corridoi anonimi dell’ateneo; in diversi si girarono a guardarci.
Fuori, il piazzale, era gremito di giovani studenti; una manifestazione in corso di cui non era a conoscenza. Mi limitai a leggere qualche cartello, ma la mia preoccupazione maggiore era come trovare un passaggio per tornarmene a casa e andare a fare la denuncia del furto dell’auto. Chiesi alle  amiche, ma nessuna era auto munita, si servivano sempre dei mezzi pubblici. Con grande rammarico compresi che avrei dovuto prendere un autobus, li odiavo. Odiavo la folla che li occupava e spesso “mani morte” avevano raggiunto le mie terga. Salutai le mie amiche e con la mia solita andatura, più che femminile, mi avviai verso l’uscita, oltrepassai il cancello e li fuori, appoggiato alla sua moto, vidi Flavio che chiacchierava con degli altri ragazzi.
Qualche istante ad osservarlo di sottecchi e mi incamminai verso la fermata dell’autobus, non volevo fare un’altra delle mie figure da ebete.
“Ambra, aspetta.” Flavio mi prese per un braccio bloccandomi. “Se vuoi ti riaccompagno a casa.”
“Prendo l’autobus.”
“Dai, non fare la stupida.”
“Devo andare a fare la denuncia del furto dell’auto.”
“Ti accompagno io. Come è andato l’esame?”
“Bene, come volevi che andasse?” Volevo fare la ritrosa, ma mi sarei buttata volentieri fra le sue braccia a baciarlo. Quella bocca mi irretiva e gli occhi erano due laghi in cui perdersi.
“Vieni, andiamo a prendere qualcosa da bere per festeggiare. Offro io.”
Flavio mi prese per mano e io mi lasciai guidare verso la moto; ,mi offrì di nuovo il casco e presto fummo immersi nel traffico di Milano. Il cielo, già grigio di suo, si oscurò del tutto e prese a piovere. Lui si fermò nei pressi di alcuni palazzi, in via Novara, piuttosto distanti dalla stazione di polizia. Scesi dalla moto, di corsa ci dirigemmo verso uno dei loggiati, fradici di pioggia.
“Certo che una giornata così sfigata…” mi lamentai.
“Ma dai, l’esame è andato. Consolati con quello.” Flavio allungò una mano verso di me, mi sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio. “Sei un sogno, Ambra.”
Lui si avvicinò pericolosamente, i nostri visi a pochi centimetri uno dall’altro, lo sguardo di lui che andava dalle mie labbra appena dischiuse al mio seno, il pizzo del reggiseno traspariva malizioso dalla camicetta bagnata. Il bacio di Flavio fu inevitabile, entrambi lo volevamo. Mi deliziai della sua bocca e della lingua che si muoveva all’unisono con la mia, le mani di lui lungo le cosce, sul bordo della gonna, si insinuarono prepotenti a cercare carnalità, Serrata tra il muro del palazzo e il corpo di lui, notevolmente eccitato, lo lasciai fare, incurante del luogo in cui ci trovavamo. Quando Flavio si staccò da me, per guardarmi, il fuoco era acceso, difficilmente si sarebbe spento se non fossero passate di li alcune persone.
Tentai di ricompormi come potei, gli abiti stropicciati e bagnati di pioggia, i capelli in disordine e il fuoco in viso, sentivo il calore pompare fin sul cervello.
“Scusami, non ho resistito…”
“Lo volevo anch’io.” Mi sorpresi delle mie stesse parole. L’imbarazzo di entrambi si poteva tagliare con un coltello.
Ci sedemmo su una panchina ad aspettare uno spiraglio nel cielo grigio, muti, a guardare la città che scorreva sotto la pioggia, immersi nei nostri stessi pensieri.
Il confine tra il sonno e la veglia è sottile, alle orecchie di Ambra la voce di sua madre: “Non le rimane molto, vero?”





Il libro
Alcuni giorni sono così normali, tanto che riesco ad assaporare ogni cosa, anche quello spiraglio di vita che mi rimane. Altri giorni… oh quei giorni! Il prurito alla schiena che non riesco a raggiungere, la mano che si addormenta, la gamba che non sento. La mente in fermento per trovare una soluzione che possa farmi stare meglio. Invece devo chiedere, mendicare attenzioni che vorrei evitare, impegnare mia madre che soffre così tanto. La vedo, vedo le sue lacrime represse quando è al mio fianco, i suoi occhi gonfi, le sue rughe; non merita di vivere in questa maniera, vorrei che la macchina smettesse di funzionare e mi lasciasse andare. Il buio è la mia droga, un rifugio che bramo.
“Spazio, ho bisogno di spazio.” Nello spazio c’è tanta aria, tutto può essere collocato nello spazio, ogni cosa nella propria casella, ordine in mezzo a tanto spazio. Nella mia testa non c’era più spazio, l’unico mio pensiero rimaneva Flavio, mai un ragazzo aveva preso così tanto posto.
Andai sul patio a studiare, il pc aperto per controllare gli stati che mi passavano nella home di facebook. Ero curiosa, mi piaceva leggere le stronzate che scrivevano le mie amiche, le commentavo; qualcuna, per assurdo, scriveva anche delle vote che andava a fare pipì. Mentre sotto i miei occhi le parole del libro che avevo in mano sembravano prive di significato, data la mia scarsa concentrazione, mi passò nella home la foto di una ragazza che aveva appena commentato Serena, la mia amica. Fra i commenti compariva anche il nome di Flavio. Passai oltre tentando di concentrarmi sul testo che stavo leggendo, cacciandolo nei meandri più profondi e bui della mia mente.
“Ambra, c’è una persona che vorrebbe parlarti.” La voce di mia madre.
Alzai gli occhi a guardarla e dietro di lei… lui. Un sorriso appena accennato, lo sguardo indecifrabile, Flavio, aveva in mano un libro.
“Vi porto qualcosa da bere. E’ un piacere averti qui con noi Flavio. Accomodati pure.” Se ne andò lasciandoci momentaneamente soli. Tornò poco dopo con una brocca di fresca spremuta d’arancia e dei bicchieri. Se ne andò.
Flavio seduto sul divanetto di fronte a me, non parlava. Nello spazio tra noi il silenzio, che in me creò una morsa allo stomaco e leggere gocce scintillanti sulla pelle.
“Dovevo scusarmi con te in qualche modo. Ti ho portato un libro. Mi piacerebbe lo leggessi.” Appoggiò il libro sul tavolino basso che ci separava, guardandomi.
Lessi il titolo ad alta voce: “Stringhe & Corsetti – poesie e pensieri di una Dannata Mente. Sembra interessante… Come mai hai pensato di portarmelo?”
“C’è tanta passione li dentro… ci sono emozioni, sentimenti, dolore e amore. Mi ha fatto pensare a te.”
Mi versai del succo in un bicchiere e ne offrii uno anche a lui. Le mani si sfiorarono, un lieve tocco che affiorò sulla pelle come una scarica elettrica.
“Ambra, sono sincero, non mi va di girarci attorno. Mi piacerebbe continuare quello che abbiamo iniziato ieri.”
Il succo mi andò di traverso e non potei evitare lo spruzzo che seguì. “Mio Dio…” pensai… “altra figura di emme. Sono un’idiota!”
Lui si alzò, mi pulì con un tovagliolo. “Tu non sai cosa stai dicendo. Cosa ti sei fumato?” Mi scappò da ridere, un po’ per la mia figura, un po’ per l’espressione preoccupata di lui. “Sto bene, puoi smettere di pulirmi, so farlo anche da sola. Ma ti sei reso conto di quello che mi hai appena detto?”
“Si, che sei una persona che suscita carnalità.” Incalzò ancora. “E io non ti sono indifferente…”
“Flavio…” Le altre parole morirono in gola.
“Non parlare, domani usciamo insieme, ti porto in un posto. Non accetto un no. Leggi quel libro che ti ho dato, è un ordine.” Se ne andò.
Il sole ha inondato la stanza, il calore che sento sul viso una mano invisibile, un tocco leggero, un soffio di vita. Pulviscoli aleggiano nell’aria, segno che ogni minimo granello di terra, simile a quelli trasportati dal fiume, trova il suo ambito posto. Sarà così anche per me. Presto diverrò polvere da spargere, assaporerò la mia libertà.




Il coro ligneo
Oggi è uno di quei giorni da incorniciare, di quelli che vorresti non finissero mai. Mi sono svegliata di buon umore e il sole che entra dalla finestra mi sembra bellissimo. Ho chiesto a mia madre una tela, una di quelle accantonate quando mi chiusero dentro il mio “scafandro”. Con pazienza si è messa al mio fianco. Ha intinto i pennelli nel colore, ascoltandomi con attenzione. La tela ha preso colore, è stata una sfida, frustrante per certi versi, ma adesso è li, sistemata su un cavalletto in fondo alla stanza. Sorrido, il bianco è molto peggio del destino.
Decisi di accettare l’invito di Flavio. Sapevo di dover salire sulla sua moto, per cui optai per un abbigliamento casual: jeans, maglietta e scarpe comode, un trucco leggero e capelli raccolti.
Suonò il campanello alle 3 del pomeriggio. In ascensore provai a chiedere: “Dove andiamo?”
“E’ una sorpresa.” Non disse altro.
Il tragitto in moto non durò molto; circa una mezzora e l’Abbazia di Morimondo si presentò in tutta la sua bellezza, una delle poche costruzioni dell’epoca costruite su più piani. Era veramente una bella sorpresa, ne avevo sentito parlare, ma non l’avevo mai visitata. Sapevo che all’interno si trovava una biblioteca monastica, testi scritti fondamentalmente per testimoniare l’intensa vita spirituale, mi sarebbe piaciuto poterli studiare.
La visita alla chiesa e di tutti i luoghi annessi alla costruzione principale fu una rivelazione, ma sorprendente fu avere l’accesso anche all’amarium.
“Come ci sei riuscito? So che non fanno entrare qui dentro, o almeno non senza una guida.”
“Ho delle conoscenze in alto.” Alzò la testa a guardare il soffitto e sorrise. “Sapevo che ti sarebbe piaciuto. Quando avrai bisogno di consultare qualche testo, mi basterà chiedere alle persone giuste. Peccato che sulla scia della rivoluzione francese molti testi con i codici siano andati dispersi… Ma ho altro da farti vedere. Andiamo.”
Mi prese per mano e ci incamminammo in un lungo corridoio. Attraversammo una porta ed eravamo di nuovo all’interno del chiostro deserto, illuminato solo dalla luce che veniva dalle volte, a ridosso del coro ligneo, imponente e riccamente decorato. Mi guidò ancora verso il retro dell’altare, appena dietro si fermò.
“Hai letto il libro che ti ho portato ieri?”
“Poche cose, ma quelle che ho potuto leggere mi sono sembrate…” Non mi fece finire la frase, mi chiuse le labbra con le sue. Non tentai nemmeno di divincolarmi, visto il luogo in cui eravamo avrei dovuto farlo, ma non c’era anima viva in giro, lo assecondai. Cosa avrebbe potuto fare più che baciarmi? Invece seguì un intenso desiderio di entrambi, con mani che si cercavano, che cercavano pelle da toccare e da esplorare, che finirono inesorabilmente sotto le magliette. Quando si staccò dalle mie labbra, mi prese il viso tra le mani. In quell’istante potei vedere una luce diversa nei suoi occhi, colma di lussureggianti pagliuzze dorate che si inframezzavano nell’azzurro delle iridi. Uno sguardo che chiedeva possesso e bramava carne da violare. Ebbi un moto di paura.
“Ecco cosa mi fai… Capisci, donna, che riesci a tirar fuori i miei istinti più bassi?”
In tutta risposta riuscii a tirar fuori un gemito. Flavio lasciò il mio viso e si girò di spalle. Io mi sedetti su uno dei posti del coro e rimasi a guardarlo con il viso fra le mani e i gomiti appoggiati alle ginocchia. Avevo perso il controllo anch’io, mi ero consegnata nelle sue mani, la mente posseduta da un istinto che non ero riuscita a reprimere. Esaminai i miei conflitti. La donna che avrebbe dovuto contenersi e la donna il cui unico pensiero era il desiderio di piacergli e di donarsi, nonostante le circostanze del momento e del luogo.
La luce del giorno di nuovo a svegliarmi, il primo sguardo verso il cavalletto con la tela in fondo alla stanza. Il coro ligneo e la donna seduta al centro, la testimonianza di istanti di un sogno che presto sarei tornata a vivere. Bastava saper attendere il buio e la notte. Vivevo nelle attese e nei sogni.


Le grange
La vita è un lungo viaggio verso l’altra dimensione. Puoi ridere e divertirti, piangere e imprecare, oppure semplicemente lasciar scorrere i giorni uno dietro l’altro. Qualcosa sta cambiando, sento un sottile alito di vento e il profumo della primavera entra dalle finestre. Ho chiesto dei fiori a mia madre, tulipani, vorrei vedere i loro colori, tastarne la consistenza. Li ha messi in un vaso, sul mobile in fondo alla stanza, accanto al mio quadro. L’ultima immagine prima di chiudere gli occhi e riprendere a sognare.
Rimasi a pensare con la testa fra le mani, guardavo i miei piedi, il pavimento di legno del coro, seguivo con gli occhi le venature e i nodi. E lui li, girato di spalle immerso in chissà quali pensieri.
Mi sorprese quando improvvisamente si inginocchiò ai miei piedi.
“Ti chiedo scusa. Non volevo. O meglio, si lo volevo…” si zittì di nuovo guardandomi.
“Flavio, vorrei uscire.”
“Ti faccio vedere un altro posto, vieni.” Mi prese per mano e lo seguii verso l’uscita sul retro.
Aria aperta, un prato e una costruzione bassa in fondo, una delle poche parti non ristrutturate totalmente, avevano un non so che di fatiscente.
“Quelle sono le grange, anticamente fungevano da deposito per le granaglie e alloggio dei conversi.” Spiegò Flavio. “Adesso le utilizzano poco. Ti va di entrare a vederle?”
“Cosa ci può essere di così interessante li dentro?”
“Niente, ma li siamo al riparo da occhi indiscreti.”
Con una certa dose di stupidità, mista a curiosità e paura, lo seguii ancora.
Mi fece entrare e si chiuse la porta alle spalle. La stanza era ampia, non molto alta, la luce filtrava appena dai vetri sporchi, nessun mobilio, solo una catasta di legname a ridosso di una parete.
“Non vedo nulla di particolarmente interessante qui dentro.”
“Ma ci siamo noi due. Vorrei ti fidassi di me.” Dalla tasca posteriore dei jeans, sfilò una piccolo foulard nero, di quelli che si usavano stretti al collo negli anni cinquanta.
Lo guardai attonita, tentando di capire i suoi intenti.
“Non voglio farti nulla, voglio solo che ti lasci guidare.”
“Non capisco Flavio, questo gioco non mi piace.” Nonostante il mio evidente disappunto, lui continuò per la sua strada.
“Devo solo bendarti, lo giuro, non ti tocco. Lasciami fare.” Il suo sguardo mi sembrò tranquillo. Brandiva il foulard quasi giocoso. Sorrise. Bastò a farmi cedere.
Appena finì di legare il foulard sulla nuca, lo sentii allontanarsi.
“E adesso? Mi lasci qui?” La mia voce così stridula che stentai anche io a riconoscermi.
“Non aver paura. Prova a guardare nel buio.” La sua voce, invece, era così sicura, così maschia.
“Il buio è buio! Cosa devo vedere?”
“Rimani in silenzio qualche minuto, prova ad ascoltare. Io sono qui e non me ne vado.”
Negli occhi mille piccole luci, nella mente una miriade di parole che affioravano senza alcun senso, nessuna si legava assieme. La confusione più totale e l’unico rumore il mio respiro. In un angolo della mente sapevo che mi stava osservando, tentai di muovere il corpo il meno possibile, ma sentivo il petto gonfiarsi mentre prendevo aria dalle narici e dalla bocca semiaperta.
Lasciai vagare la mente, i pensieri si allungarono come tralci di vite, attorcigliati più che mai ma liberi di spaziare; appena trovai un filo a cui appigliarmi e seguirlo, sentii Flavio sfiorarmi i capelli, la nuca, un sussulto involontario mi fece quasi perdere l’equilibrio. Lui mi afferrò per le spalle, poi un sussurro al mio orecchio: “Vorrei entrare nei tuoi pensieri. Non parlare.” Si allontanò di nuovo.
Continuavo a non capire dove volesse arrivare, mi mordevo le labbra, respiravo quasi a fatica, lo sentivo aleggiarmi attorno. Il mio respiro, i suoi passi, il mio cuore… pensai di sentirlo battere, le tempie martellanti e un gran calore addosso. Immagini si susseguivano veloci nella mente, come fotogrammi di una pellicola che andava più veloce del normale. Sulla pelle un leggero brivido.
I sogni possono essere illusioni. I sogni sono la mia illusione di vivere.




Arditi ardori
L’alba. Le volute sottili del giorno si immergono nella mia stanza. Cambiano repentini i colori, con il passar dei minuti, divengono un caleidoscopio di lussureggianti toni, caldi adesso. La sensazione che ne ricevo è benefica. Vorrei dipingerli, immergere i pennelli ed esprimere le sensazioni. Non posso. La mia mano sembra morta, tento di muovere le dita accartocciate nel palmo, si aprono a fatica. Mi agito, mia madre se ne accorge. La vedo armeggiare con le flebo. Precipito nel sonno.
Sentii Flavio dietro di me, il suo sfiorarmi leggero, il respiro caldo al mio orecchio. Poi di fronte, il suo odore, un tonfo pesante nello stomaco.
“Flavio… cosa vuoi dimostrarmi?”
“Shhh… non parlare. Sto ascoltando i tuoi pensieri.”
Era vicinissimo, percepivo il suo alito caldo, il tono muschiato del suo profumo. Tutto in me era in fermento. Brividi caldi si spandevano per il corpo, tutto in allerta. Ero in pericolo? No. E non era quello che mi preoccupava! Erano le mie sensazioni, la fonte maggiore di preoccupazione, il corpo in pieno risveglio ormonale. Avrei voluto allungare le mani, toccarlo, sfiorargli le labbra e poi possedere la sua bocca con la lingua. Pensieri che rasentavano la lussuria, che prima di allora non avevo mai provato. Rimasi ancora in attesa, frenando i miei istinti.
“Ambra, lasciati andare. Sei tesa come una corda di violino.” Flavio mi sfiorò le braccia, dalle spalle alle mani, che prese fra le sue: un delicato possesso, un intreccio di dita. “So che lo vuoi anche tu…” disse ancora a fior di labbra, un lieve sfiorarmi il suo respiro sul mio. La bocca dischiusa, non attendevo altro che un suo bacio. Fu involontario protendermi verso di lui, o almeno lo credevo. Trovai la sua bocca cedevole, le sue labbra morbide, la sua lingua, che presi a succhiare avida. Avrei voluto guardarlo negli occhi, il foulard me lo impediva… forse era meglio. Riuscii a godermi quel bacio, mentre le sue mani stringevano le mie. Le guidò sul suo petto, le lasciò e le sue finirono sui miei glutei; li strinse fra le mani e mi incollò al suo corpo, era notevolmente eccitato.
Mi balenò un orgoglioso sorriso in testa, insolito e libertino prese spazio tra le inibizioni: premetti ancora di più il ventre contro di lui. Un gemito mi sfuggì quando lasciò la mia bocca e si insinuò a suggellare l’incavo del collo, e poi scese, verso le colline dei seni, protesi e gonfi sotto la lingerie. Il suo respiro sulla pelle e: ”Ambra… Ambra… Ambra…” la voce resa roca dalla sua evidente eccitazione. Non ero da meno. Allungai le mani a toccarlo, sopra il tessuto dei jeans, annichilita, ma improvvisamente audace.
Slacciai la cintura, il bottone e feci scorrere la zip verso il basso, infilai una mano sotto i boxer; il caldo e umido glande nella mia mano non mi sorprese. Continuai a toccarlo in una lenta e maliziosa esplorazione; l’unico suono la melodia dei nostri sospiri e respiri. Niente altro, solo noi due e la voglia di prendersi; assaporai il momento, mentre le sue mani armeggiavano con i miei jeans, finirono aggrovigliati ai miei piedi, come il perizoma. Flavio, una mano su un gluteo e l’altra fra le mie cosce, iniziò il suo lento incedere verso il mio cuore pulsante; mi accarezzò il pube con estrema delicatezza, si infilò tra le labbra calde con le dita, prese possesso del mio magico bottoncino, torturandolo e sfiorandolo. Risposi in spasmi e contrazioni, come lui d’altronde, che sotto le mie mani cresceva e vibrava di desiderio. Ma non mi bastava.
Fu impossibile nascondere il mio lato che consideravo perverso, i miei desideri, ed era tutto così meraviglioso, tra il dolce e l’amaro, il depravato e il sublime. Scesi verso il basso della sua asta, accarezzai il suo scroto, lo avevo in pugno: potevo accrescere il piacere o regalargli un po’ di…
Si sa, i sogni possono prendere pieghe inaspettate, è la psiche che muove tutto, si aprono mondi improbabili, o mondi fantastici. I sogni sono anche ali di farfalla, fragili, colmi di vita, come la loro breve esistenza.


A piccole dosi
Ho aperto gli occhi e la realtà mi sbatte subito contro, distesa dentro il mio contenitore guardo il soffitto, non c’è nulla di interessante in una tinta bianca, non per me. Mi accorgo che mia madre non è come al solito al mio fianco, ma la sento parlare al di la della porta, distinguo una voce familiare: mio padre. Li sento litigare e non mi piace, vorrei che tutto finisse al più presto. Poi un allarme, la macchina che mi tiene in vita da segnali alterati. Vedo aprire la porta: mia madre e dietro di lui papà. Faccio appena in tempo ad abbozzargli un sorriso e diviene tutto confuso, ripiombo nel sonno.
Flavio, i testicoli imprigionati nella mia mano, ebbe un fremito diverso, forse di dolore, non potevo saperlo con certezza ero ancora bendata. Continuai a stringere quasi volessi fargli del male, poi allentai la presa; lo sentii rilassarsi.
“Non ci provare più!” Quasi un sibilo sulle mie labbra quello di lui.
“Perché non dovrei? In fondo tu li dietro, sul mio fondoschiena, non sei così tenero.” abbozzai un sorriso, volevo sfidarlo.
“Mi piace stringere la tua carne soda e liscia.”
“A me piace imprimere il segno.” Portai una mano sotto la sua maglietta, sulle spalle, e affondai le unghie.
“Ahi! Ma sei scema? Togli quelle unghie dalla mia schiena!” Mi affibbiò una pacca sul sedere.
“Vuoi la guerra allora.” Feci altrettanto e attesi.
“Non ne veniamo fuori così, lo sai?” Di nuovo un’altra bella manata al posteriore.
“Sei ridicolo, non hai fantasia.” Allentai la presa delle unghie sulla schiena e strusciai la mano, sotto la maglietta, fino al suo petto. Un capezzolo finì nella morsa dei miei polpastrelli. Nonostante la mia audacia e la situazione paradossale che si era creata, ero terribilmente eccitata.
Lui mi afferrò con forza il polso e dovetti sottostare alla sua forza allentando la presa. Con l’altra mano mi tolse la benda: “Guardami adesso, voglio che vedi quello che mi fai.” Intrecciò le dita nei miei capelli e con l’altro braccio mi incollò al suo corpo, alla sua bocca avida. Ricambiare il bacio e la presa fu facile, quanto scivolare oltre i confini e lasciarsi andare del tutto. Ma lui si fermò, all’improvviso, e staccandosi da me: “Sta buona lì, non è ancora il momento.”
Rimasi immobile, in mezzo alla stanza, curiosa, a guardare quello che andava facendo. Si rivestì e andò verso la catasta della legna, scelse un paio di tronchi e li mise in piedi uno accanto all’altro. Venne di nuovo verso di me e mi prese in braccio. Lo lasciai fare. Si sedette sullo sgabello improvvisato e mi riversò carponi sulle sue gambe. Provai a divincolarmi, ma era più forte.
Il primo colpo su una natica non me lo aspettavo, sussultai quando la mano raggiunse la pelle, un dolore penetrante quanto il suono che arrivò alle mie orecchie e poi ancora un altro e un altro ancora. “Sono solo tre e sono buono. Andrò avanti a tre colpi per volta, quando mi chiederai scusa, smetterò. Poi, forse… dico solo forse, soddisferò i tuoi desideri. E non dirmi che non ne hai. Io so cosa vuoi.”
“Non voglio nulla, lasciami.”
Riprese a sculacciarmi, altri tre colpi ben assestati sull’altra natica, ma io non intendevo chiedere scusa. Continuò a battermi le natiche, mi bruciavano, sentii il calore raggiungere la carne sotto la cute. Lo fermai, era insopportabile.
“Ok, ok… basta, ti prego. Ho capito, scusa.”
Continuava però a tenermi stretta sulle sue gambe e quando mi penetrò la vagina con le dita, il calore delle natiche arrivò alle gote, imbarazzata per quello che avrebbe sentito.
“Brava bambina, ho avuto la dimostrazione che volevo.” Allentò la presa e mi lasciò andare. “Rivestiti, andiamo a casa.” Sostenere il ghigno che aveva stampato in viso fu per me umiliante, ma affrontai il suo sguardo e in pochi attimi fui pronta per uscire. Il ritorno mi sembrò infinito, saltai giù dalla sella senza nemmeno guardarlo.
La realtà è molto più dura di mani che posseggono, che imprimono, che scavano, che umiliano.
Un battito di ciglia ed è nuovamente l’alba, un alito di vita ancora mi sfiora.



Il regalo
Ho molto tempo per pensare, chiusa nella mia camera le ore passano lente, penso alla mia vita, alla libertà che vorrei avere: di muovermi, camminare, spaziare per le vie della città. Non posso. Non ho paura di morire, so che è terribile, ma lasciare questo corpo è l’unica cosa che mi rimane, la mia anima sarà finalmente libera. Sul pc che hanno modificato apposta per me, la testimonianza dei miei sogni, una eredità che lascio a mia madre, forse potrà farne buon uso. Il buio è il giorno dell’anima.
Non uscii di casa per due giorni, non risposi al telefono, continuavano ad arrivare messaggi: le mie amiche, Flavio. Tutti mi cercavano. Mia madre mi sembrò preoccupata quando venne a chiamarmi per avvisarmi della cena dai vicini.
“Alle 8 dobbiamo essere lì. Hai pensato ad un regalo per Flavio?”
“Un regalo? Perché mai?”
“Pensavo sapessi del suo compleanno. Ci hanno invitato, ci sarà altra gente. Credo una cena in piedi sul loro terrazzo.”
“Ah! Devo per forza pensarci io al regalo? Non puoi farlo tu?” Ero infastidita, il solo pensiero di rivederlo mi metteva agitazione. Allo stesso tempo, ne avevo una voglia matta, ma non sapevo come comportarmi. Ripensai alle sue mani sulle natiche, al mio bruciore, alla mia eccitazione e tutto riaffiorò sotto pelle.
“Allora, ci pensi tu Ambra? Dai muoviti che è tardi.” La voce di mia madre mi scrollò.
“Ok, ok. Ci penso io.” Non sapevo da che parte andare a parare, ma mi vestii in fretta e uscii.
Il centro commerciale, che distava pochissimo da casa mia, era affollato, ma andai a colpo sicuro: scelsi una felpa, anche se era un regalo ovvio e scontato. Sulla via di casa mi colpì la vetrina di “Rosso Scarlatto”, il fetish-shop più fornito della zona. Entrai d’impulso pensando che uno scherzo ci stava bene, avrei potuto ovviare al mio evidente imbarazzo, nel rivederlo, scherzandoci sopra. Guardai tra gli scaffali: completi intimi da donna e da uomo, scarpe fetish, costumi per svariati eventi… nulla mi attirava. Saltai il reparto dildo, falli e attrezzi vari, leggermente stupita per via delle svariate forme, colori e dimensioni. C’era un mondo intero lì dentro, un mondo che neanche lontanamente avrei pensato di avvicinare. Quando giunsi vicino allo scaffale delle fruste e accessori vari sadomaso, la mia attenzione fu attirata da un paddle, nero e rigido, con una scritta sopra: spanking me. Avevo deciso! Lo avrei comprato.
Andai alla cassa e mentre il commesso confezionava il pacchetto, scrissi un biglietto che avrei consegnato direttamente nelle mani di Flavio, non volevo lo aprisse in mezzo alla gente. Infilai il pacchetto nella busta della felpa e tornai a casa.
I miei genitori erano già pronti, mia madre aveva preparato dei dolcetti mignon e si apprestava ad andare dai vicini. Io dovevo ancora cambiarmi, lasciai la busta con il regalo all’ingresso, e sparii nella mia camera.
Scelsi con cura come vestirmi: abito fantasia corto, molto colorato, un copri spalle rosso, calze velatissime e scarpe spuntate tacco dodici rosse. L’insieme era delizioso, mi specchiai più volte, come sempre civettuola. Il trucco leggero e i capelli liberi sulle spalle completarono il look. Ero pronta. Presi un respiro profondo e ammiccando ancora allo specchio, per l’ultima volta, mi diressi verso l’ingresso.
Mi accorsi solo allora che la busta con il regalo era sparita, più che ovvio che mia madre l’avesse portata con se. Andai in completa confusione, cominciai a sudare nonostante l’aria fresca dell’appartamento. In un istante di lucidità mentale, presi il cellulare e dalla rubrica scelsi il nome di Flavio, un click su invio e rimasi in attesa. Inutile, c’era la segreteria telefonica. Composi, allora, un messaggio: non aprire il pacchetto rosso, ti prego. Lo cancellai subito. Ne composi un altro e cancellai anche quello. Rimasi seduta sulla panca dell’ingresso un tempo indefinito, fino allo squillo del campanello che mi svegliò dalla catalessi in cui ero piombata.
Una brezza sul viso e di nuovo la luce negli occhi.



Inevitabile fine
L’universo cammina al nostro fianco, silenzioso e avvolgente, alcuni giorni, fra buio e luce, sono come le ombre che mimano i sogni. Io vagabonda della notte e del sonno, modello la vita come vorrei… ora la guardo allontanarsi.
Il suono del campanello mi sembrò assordante, controvoglia mi alzai dalla panca e andai ad aprire.
“Flavio? Ma…” Non feci in tempo a dire altro, entrò spingendomi dentro e chiudendosi la porta alle spalle.
“Sei in ritardo Ambra. La festa è iniziata.”
Era troppo vicino, troppo. Il suo solito sorriso tra il divertito e l’intrigante, sembrava quasi volesse schernirmi, lo sguardo beffardo. Perché doveva sempre farmi sentire in imbarazzo, perché? Lui allungò una mano verso il mio volto, si soffermò ad accarezzarmi i capelli, ma fu solo per attirarmi a se. La mano sul collo e l’altra in vita, mi incollò al suo corpo. Non mi baciò, ma a fior di labbra le sue parole furono affilate, studiate: “Non è il momento giusto per usare quello che mi hai regalato. Ho bisogno di tempo, del luogo adatto, della tua mente e infine del tuo corpo. Lo userò, ma non oggi e nemmeno domani… non lo so quando. Tu riesci a farmi sentire completo e mi piace quando ti ribelli.”
Incanalando i miei pensieri verso le corde vocali, riuscii mettere insieme alcune parole: “L’hai aperto? Davanti a tutti?”
“Stai tranquilla, ho visto l’etichetta del negozio sul pacchetto e ho pensato fosse stato meglio andare ad aprirlo in camera… da solo.”
Sospirai sollevata. Avevo scampato una bella figuraccia. Flavio rideva guardandomi, probabilmente avevo stampata in volto una maschera divertente, una delle mie solite.
“Dai andiamo, il buffet che hanno preparato è una vera delizia.” Afferrò la mia mano e mi trascinò fuori dall’appartamento e poi nel suo. C’era un sacco di gente, alcuni ragazzi dell’uni, ragazze, parenti di lui, alcuni ragazzini che urlavano. Fuori sul terrazzo una gran tavola imbandita, ogni ben di Dio faceva sfoggio di colori e di sapori. La musica, che proveniva da un impianto stereo sistemato alla perfezione in un angolo, rendeva il tutto molto allegro e leggiadro, non sembrava quasi la festa di un ragazzo di ventiquattro anni. Ne aveva viste diverse, ultimamente, e tutte le erano sembrate confusionarie e di poca fantasia, soprattutto non erano mai presenti genitori o ragazzini.
Flavio scambiava convenevoli con tutti, accettava i regali, perfettamente gentile e premuroso verso tutti, ogni tanto lanciava uno sguardo ammiccante verso di me, falsamente intenta a parlare con alcuni amici.
Dopo un po’ tutto divenne stridulo, improvvisamente le luci si affievolirono, la musica scomparve e attorno a me solo il vociare di gente estranea, mi sembrò di essere in ben altro luogo. Visi che mi guardavano tristi, lacrime che scendevano copiose… mio padre. L’ultimo viso che vidi. Chiusi gli occhi, per sempre.
Tale è la mente di un sognatore, vive nei colori: il verde e l’oro del grano che contiene la felicità di un giorno d’estate, il morbido azzurro che si tinteggia di blu e ci accompagna alla notte, il rosso della passione e dei desideri, e il nero… il buio in cui molti hanno paura di camminare. Non ci si può dimenticare della luce, quella luce infinita delle stelle che brillano, sorelle dell’universo intero, saggi bagliori che ci incantano e attraverso di loro la bellezza può risplendere. Ambra viveva il suo mondo e il confine con i suoi sogni, come attraverso una bolla di sapone: fragile, effimera, incredibilmente bella, ma tanto delicata; non temeva lo scoppiare della bolla , perché avrebbe trovato la sua libertà altrove. Questi erano i sogni di Ambra, dipinti colorati di una mente colorata, libera di vivere quella vita che gli era stata negata.


Io viaggio,
mente e materia.
Mi aggiro,
carne e sangue.
Rifletto,
con il cuore in fiamme.
Sono un’anima senza speranza.
Ti dipingo nella mia mente,
ti respiro con la mia anima,
ti accarezzo con il cuore.
Sono una sognatrice,
volo sulle ali dei sogni.
Non svegliatemi.



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